La spesa pubblica totale in Italia nel 2014 ha raggiunto la cifra di 825 miliardi di euro, con un aumento rispetto all’anno precedente del +7,8%. Se prendiamo questa cifra e la dividiamo per 60 milioni di italiani, scopriamo che per ciascuno di noi lo Stato, in tutti i suoi interventi e ai vari livelli di governo, dal centro al più piccolo dei Comuni, spende la bellezza di 13.750 euro. In pratica, ogni mese dalle casse pubbliche escono per ogni “Mario Rossi” e per ogni “Giovanna Bianchi” ben 1.146 euro, un piccolo stipendio o “tesoretto” che va nei mille rivoli della spesa: scuole, strade, ospedali, difesa e sicurezza, ministeri, stipendi pubblici, medicine, solidarietà, terzo mondo, disoccupati, oltre agli interessi sul debito pubblico. L’elenco sarebbe lunghissimo, quasi infinito. Come le polemiche, le risse politiche e le “ricette” che accompagnano i problemi che di volta in volta siamo chiamati ad affrontare. Basta pensare alla “spending review”. Ma quanto si spende negli altri paesi europei? Nelle zone “alte” troviamo i 36.325 euro del Lussemburgo, 33.900 della Norvegia, 25.378 della Danimarca, 23.152 della Svezia, 21.099 della Svizzera. Il piccolo e ricchissimo Lussemburgo spende quasi tre volte l’Italia! Sopra di noi troviamo ancora Austria (18.949) e poi Belgio, Francia, Paesi Bassi, Islanda, Irlanda, Germania fino al Regno Unito con 13.953 euro. Meno dell’Italia troviamo invece un gruppo di paesi: dalla Slovenia (10.175), Spagna (9.989), Grecia (prima della crisi era a 9.608, cifra oggi precipitata di almeno un terzo) e via a scendere fino ai 4.031 euro della Lituania, ai 2.481 della Romania e ai 2.127 della Bulgaria. La media europea a 28 paesi è di 12.616 euro e quella della “eurozona” (18 paesi) vale 14.352 euro.
Una società “solidaristica”. Come spesa pubblica pro-capite siamo quindi vicini alla media Ue, il che non è male considerate le conseguenze della grande crisi finanziaria e produttiva che dal 2008 ad oggi ha visto cadere la produzione industriale del 25%, la disoccupazione crescere dal 6,5 al 13%, quella giovanile schizzare oltre il 25% (al Sud oltre il 40%). Il nostro paese è ancora in piedi per alcuni suoi punti di forza: una diffusione molto ampia e capillare delle piccole e piccolissime imprese; un senso solidaristico molto diffuso, che va dalle parrocchie alle Caritas, dal sindacato alle cooperative, dall’associazionismo al terzo settore, che ha permesso di attutire i colpi; un ruolo della famiglia italiana che ha giocato in difesa, prendendosi in carico i giovani senza lavoro, i padri licenziati; in una parola diventando agente di welfare dove non arrivava più lo Stato. Insieme a questi fattori, così tipici della realtà italiana, ha svolto un ruolo altrettanto importante, la nostra struttura “sussidiaria”, cioè quell’insieme di soggetti prestatori di beni e servizi, siano essi pubblici o privati, sui quali è articolato il nostro sistema socio-economico.
Stato “sussidiario”: sì, ma non troppo. Proprio di questa “sussidiarietà” in rapporto alla spesa pubblica si occupa l’omonimo rapporto curato dalla Fondazione per la Sussidiarietà in collaborazione con l’Università di Bergamo, presentato nei giorni scorsi. Si tratta di uno studio di 240 pagine, denso di dati e tabelle, che muove proprio da quello che il termine sussidiarietà rappresenta. Il principio, come noto, valorizza i cosiddetti “corpi intermedi” (famiglie, associazioni, confessioni religiose ecc.) che si collocano tra il cittadino e lo Stato. Così, se gli stessi corpi intermedi sono in grado di svolgere una funzione pubblica e sociale o anche di rispondere a un bisogno del cittadino (come nei campi di istruzione, educazione, assistenza sanitaria, servizi sociali, informazione ecc.), lo Stato è tenuto a non privare queste realtà di ordine “inferiore” delle loro competenze, ma piuttosto dovrebbe sostenerle, anche finanziariamente, favorendo il coordinamento della loro opera con quella degli altri corpi intermedi. Si collocano qui temi quali la “scuola paritaria”, la solidarietà sociale (Caritas, volontariato ecc.), la sanità (strutture private in convenzione pubblica) ma anche gli stessi compiti di Regioni e Comuni, per risposte più dirette ai cittadini sul territorio. La sussidiarietà, in una parola, è un valore riconosciuto dalla Costituzione, ma ancora non adeguatamente sviluppato e, soprattutto, finanziato.
La soluzione? Decentramento “differenziato”. Dal rapporto emerge che, per la cosiddetta “sussidiarietà verticale” (competenze devolute dallo Stato centrale a Regioni e Comuni) l’Italia è al 30%, mentre – ad esempio – la Germania è al 46%. Per quella “orizzontale”, ad esempio l’8×1000 o il 5×1000, o anche detrazioni di imposta, oneri deducibili rimborsati a fronte di spese quali per sanità, mutui ecc., siamo piuttosto indietro. Da noi il tax credit e la deducibilità sono tra i 2,6 e i 4,3 euro pro-capite, negli Stati Uniti dai 48 ai 168 euro (famose le “scatole di scarpe” piene di scontrini deducibili che l’americano medio presenta ogni anno con la propria dichiarazione dei redditi!). La questione per noi italiani è: dobbiamo chiedere più sussidiarietà, più decentramento, più “federalismo”, cioè più scuola paritaria, più sanità in convenzione, più privato e meno Stato? Le Regioni, che dovevano essere la culla della sussidiarietà, hanno mostrato pregi ma anche numerosi difetti e sprechi. Il rapporto risponde con la formula del “decentramento differenziato”, cioè una legislazione e una prassi che premino le realtà intermedie più virtuose. Difficile dire che ne sarà di questa proposta. Tira aria di ritorno al “centralismo”, viste le brutte prove che hanno dato le realtà territoriali. Forse è ancora presto per una vera e ampia sussidiarietà virtuosa, “solidale”, creativa.
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