Al pellegrino che giunge a Torino in questi giorni, il rione Valdocco si presenta a pochi passi dal duomo che ospita la speciale Ostensione della Sindone. Ma la topografia della città sabauda è assai cambiata in quasi due secoli. Quando l’allora trentaseienne don Giovanni Bosco vi arriva nel 1841, Torino è in rapida trasformazione demografica e sociale. Valdocco è ai margini, lontano da quel centro storico che mal sopporta il trambusto di centinaia di giovani che animano l’oratorio domenicale. Il luogo scelto da don Bosco per accogliere i suoi ragazzi e dare vita a quella che sarebbe diventata una delle più grandi famiglie religiose del mondo è una vera periferia: “Fu l’inizio di un’opera umile per accogliere gli ultimi, i senzatetto, ragazzi ‘sfollati’ in cerca di cibo, di lavoro. Valdocco fu una casa e una famiglia per i suoi ragazzi, sempre con le porte aperte”. Lo scrive don Ángel Fernández Artime, rettore maggiore dei salesiani e decimo successore di don Bosco, nel libro-intervista “Don Bosco oggi” (Lev) pubblicato in occasione del Bicentenario della nascita.
Ripercorrere la vita del santo dei giovani è un’opportunità per leggere in controluce le grandi questioni dei nostri tempi: nuove tecnologie, politica internazionale, economia, sviluppo e sottosviluppo, parità tra uomini e donne. I migranti, ad esempio. Don Bosco vive il dramma dell’abbandono stando tra le fila di chi parte. In un’Italia che paga ancora i costi dell’Unificazione, terra di addii per milioni di connazionali che cercano fortuna al nord e spesso al di là del mare, egli stesso era nato in una famiglia di poveri contadini senza terra che avevano dovuto emigrare dal loro luogo d’origine per trovare lavoro altrove. Durante la giovinezza, don Bosco assorbe dalla madre un modello di accoglienza che lo accompagnerà nell’età adulta. Quando in inverno, nelle notti fredde e piovose, mendicanti e vagabondi bussavano alla porta di casa per chiedere un tetto sotto cui dormire, mamma Margherita era sempre pronta a offrire un piatto di minestra calda e parole di sostegno. Poi curava i piedi doloranti per le scarpe sciupate e li avvolgeva con pezze di stoffa.
Ripercorrere la vita del santo dei giovani è un’opportunità per leggere in controluce le grandi questioni dei nostri tempi: nuove tecnologie, politica internazionale, economia, sviluppo e sottosviluppo, parità tra uomini e donne. I migranti, ad esempio. Don Bosco vive il dramma dell’abbandono stando tra le fila di chi parte. In un’Italia che paga ancora i costi dell’Unificazione, terra di addii per milioni di connazionali che cercano fortuna al nord e spesso al di là del mare, egli stesso era nato in una famiglia di poveri contadini senza terra che avevano dovuto emigrare dal loro luogo d’origine per trovare lavoro altrove. Durante la giovinezza, don Bosco assorbe dalla madre un modello di accoglienza che lo accompagnerà nell’età adulta. Quando in inverno, nelle notti fredde e piovose, mendicanti e vagabondi bussavano alla porta di casa per chiedere un tetto sotto cui dormire, mamma Margherita era sempre pronta a offrire un piatto di minestra calda e parole di sostegno. Poi curava i piedi doloranti per le scarpe sciupate e li avvolgeva con pezze di stoffa.
Dopo la fondazione della Congregazione, e prima ancora che la grande emigrazione italiana raggiunga l’apice, il santo di Castelnuovo D’Asti avverte la necessità di inviare i suoi salesiani a lavorare tra i migranti. In questo modo i salesiani scoprono poco a poco la concreta situazione e i numerosi problemi dell’emigrazione. In Argentina, prima terra di missione, sono circa 30mila gli italiani che vivono nel quartiere di La Boca a Buenos Aires: “Vi raccomando, con particolare enfasi la dolorosa situazione delle molte famiglie italiane, che vivono sparse per quelle città e villaggi – ammonisce don Bosco -. Andate a cercare questi nostri fratelli, a cui la miseria e l’avventura li portò in terre lontane; ‘ingeniatevi’ per far loro conoscere quanto è grande la misericordia di Dio, che vi manda per il bene delle loro anime”.
Oggi i circa 15mila salesiani sono presenti nei cinque continenti e in oltre 130 Paesi con attività educative, tra i bambini di strada, nei processi di alfabetizzazione, nelle scuole, nei centri di formazione professionale, nella cura per gli orfani e la lotta contro tutte le forme di emarginazione. In prima linea anche nella sfida lanciata dal fondamentalismo che, scrive don Artime, “non è una lettura corretta dell’esistenza” ma “un nichilismo, uno tsunami ideologico che distrugge qualsiasi focolaio di vita e di speranza”. Per contrastarlo, allora, è necessario scommettere “su una formazione critica e solida, aperta al dialogo e al rispetto, in grado di valutare altri credo, fissandosi in profondità nella propria fede”. E poi la conta disperata dei morti nel Mediterraneo e le speranze di chi lascia la propria terra: “I giovani sono spesso ingannati da false promesse. Tutti cerchiamo migliori condizioni di vita, e in questo desiderio i giovani in Africa sono vulnerabili alle illusioni, come lo saremmo tutti noi. Forse io, come loro, tenterei di trovare una nuova opportunità nella mia vita, soprattutto se sentissi di non avere niente da perdere”. La soluzione, però, non potrà mai essere Lampedusa o la costa dell’Algeria. Per questo i salesiani stanno dove c’è bisogno, insieme ai giovani, “per fare in modo che scoprano i loro valori e le potenzialità, per poter investire nei loro contesti e affiancarli lì, nei loro Paesi”.
Oggi i circa 15mila salesiani sono presenti nei cinque continenti e in oltre 130 Paesi con attività educative, tra i bambini di strada, nei processi di alfabetizzazione, nelle scuole, nei centri di formazione professionale, nella cura per gli orfani e la lotta contro tutte le forme di emarginazione. In prima linea anche nella sfida lanciata dal fondamentalismo che, scrive don Artime, “non è una lettura corretta dell’esistenza” ma “un nichilismo, uno tsunami ideologico che distrugge qualsiasi focolaio di vita e di speranza”. Per contrastarlo, allora, è necessario scommettere “su una formazione critica e solida, aperta al dialogo e al rispetto, in grado di valutare altri credo, fissandosi in profondità nella propria fede”. E poi la conta disperata dei morti nel Mediterraneo e le speranze di chi lascia la propria terra: “I giovani sono spesso ingannati da false promesse. Tutti cerchiamo migliori condizioni di vita, e in questo desiderio i giovani in Africa sono vulnerabili alle illusioni, come lo saremmo tutti noi. Forse io, come loro, tenterei di trovare una nuova opportunità nella mia vita, soprattutto se sentissi di non avere niente da perdere”. La soluzione, però, non potrà mai essere Lampedusa o la costa dell’Algeria. Per questo i salesiani stanno dove c’è bisogno, insieme ai giovani, “per fare in modo che scoprano i loro valori e le potenzialità, per poter investire nei loro contesti e affiancarli lì, nei loro Paesi”.
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