Ci sono anniversari che vale davvero la pena celebrare e in questi giorni ne ricorrono due che riguardano il Vecchio continente. L’8 maggio segnala il 70° della fine della seconda guerra mondiale, il “grande buio” della storia dell’umanità, simbolicamente rappresentata dai forni crematori di Auschwitz, dai campi di battaglia e dai cimiteri militari disseminati in tutta Europa e dalla bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki. Il 9 maggio indica invece il 65° della Dichiarazione Schuman, con la quale prese formalmente avvio il processo d’integrazione comunitaria, che ha portato all’Unione europea di oggi.
Date, queste, che facilmente rivelano una stringente attualità e mostrano fra loro legami evidenti. La conclusione del secondo conflitto mondiale richiama infatti il valore supremo, eppure sempre minacciato, della pace. Pace che purtroppo manca ancora in vari angoli d’Europa (il primo pensiero va all’Ucraina, ma anche ad altre aree tutt’altro che pacificate, come i Balcani) e in troppe regioni del pianeta. La Dichiarazione Schuman, pietra miliare della “casa comune”, si apriva del resto con un’invocazione alla pace, la quale diveniva la vera “mission” dell’integrazione economica e politica europea: “La pace mondiale non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano”. Le parole dell’allora ministro degli esteri francese, concordate con Jean Monnet, Konrad Adenauer e Alcide De Gasperi, assumono ora un valore addirittura profetico. Tanto che in questi stessi giorni alla manifestazione denominata “The State of the Union” in corso a Firenze e promossa dall’Istituto universitario europeo dell’Ue è stata presentata la bozza di una “Nuova Dichiarazione Schuman”, quasi a interpretarne la necessità per il rilancio dell’Europa pur in un contesto assolutamente mutato nel corso dei decenni.
L’Europa del XXI secolo, come quella del secondo dopoguerra, in effetti ha nuovamente bisogno di pace fra gli Stati, di comprensione reciproca tra i popoli, di istituzioni solide atte a garantire la democrazia e i diritti; così pure di valori condivisi, di sviluppo economico e sociale, di lavoro, di relazioni forti e costruttive con il vicinato, specie mediterraneo e mediorientale, da dove provengono le crescenti pressioni demografiche che turbano le coscienze (non tutte, per la verità, e mai abbastanza) dei cittadini europei.
È l’Europa del nuovo Millennio che ha assistito preoccupata, e un po’ incredula, alle elezioni del Regno Unito, la più antica democrazia parlamentare, segnate dal protagonismo di partiti secessionisti, regionalisti o antieuropei. L’isola ha tenuto finora un piede dento e uno fuori la Comunità, salvo autoconfinarsi in un angolo dell’Europa, per poi domandarsi come recuperare centralità – culturale e politica – in una Unione segnata da debolezze e ritardi, crisi e nazionalismi, ma pur sempre tra i protagonisti della scena globale.
Ed è – al contempo – l’Europa che si misura con l’irrisolta questione greca. Paese in surplace e sull’orlo del default, risoluto nell’alzare la voce verso un’Europa “egoista” e arcigna, ma incapace di operare al proprio interno quelle riforme urgenti, certamente dolorose, che appaiono come l’unica strada per ricollocare Atene – antica culla della democrazia – nel novero delle moderne e sviluppate democrazie europee. “L’Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto”: è un altro passaggio della Dichiarazione Schuman, che prospetta la strada della progressività dei risultati da ottenersi applicando il principio della solidarietà. Pazienza e unità d’intenti, dunque, per un’Europa coesa e moderna. Il lungo percorso d’integrazione puoi ripartire anche da qui.
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