Una marcia silenziosa lungo il muro fino al punto dove Papa Francesco si fermò a pregare e che, da quel 25 maggio 2014, è diventato una meta di pellegrini che lì si recano per implorare la pace in Terra Santa. Si sono chiuse così le celebrazioni del 70° anniversario di Pax Christi International che ha visto confluire dal 13 al 17 maggio, a Betlemme, 150 delegati da oltre 30 Paesi. Non è stata una marcia “contro Israele, ma contro tutti i conflitti nel mondo, contro le divisioni e le violenze che impediscono a intere popolazioni di vivere in pace e nel diritto”. Il corteo, sfilando lungo il Muro, ha pregato per chi la guerra la vive direttamente sulla propria pelle portandone i segni indelebili. E non solo in Medio Oriente. Cinque giorni di lavori, di incontri e di discussioni, che sono serviti per riaffermare l’impegno delle origini, quando alla fine della Seconda Guerra Mondiale, un gruppo di francesi e tedeschi decisero di dedicarsi alla preghiera comune, alla ricerca della riconciliazione, della giustizia e della pace. Uno spirito rimasto immutato in decenni di storia e che oggi si misura con sfide drammatiche come il terrorismo, le diseguaglianze e l’insicurezza globale.
La scelta di Betlemme. “Il circolo vizioso della violenza e dell’ingiustizia può essere spezzato” dichiara convinta la co-presidente di Pax Christi International, Marie Dennis. La scelta di celebrare a Betlemme, città natale di Gesù, “principe della pace”, il 70°anniversario dell’organismo cattolico, ravviva questa certezza. “In Terra Santa non c’è pace – afferma – ma è proprio da qui che intendiamo ribadire solidarietà a coloro che vivono nel conflitto e nell’ingiustizia, che non sono solo i palestinesi ma tutte quelle persone che in ogni parte del mondo non godono di piena dignità a causa delle guerre”. I 150 partecipanti si sono confrontati con la realtà palestinese e di riflesso anche israeliana, attraverso la testimonianza di chi vi opera in prima linea, operatori e volontari, e la visita, a piccoli gruppi, di luoghi come il campo profughi di Aida, di città come Hebron, Ramallah e luoghi come la valle del Giordano. Così facendo hanno potuto vedere il dramma dell’occupazione militare, dell’espropriazione delle terre, della demolizione di case, della detenzione per motivi politici, del mancato rispetto dei diritti. Sei le aree tematiche affrontate nei lavori: diritti umani, giustizia ambientale, giustizia e riconciliazione, demilitarizzazione, educazione alla pace e donne promotrici di pace.
La risposta non violenta. “Non ci sono risposte semplici alle crisi in atto in quest’area del mondo – ammette la co-presidente – ma credo che la risposta non violenta, tesa al dialogo, sia più forte delle armi. In Palestina ci sono esempi di resistenza non violenta che offrono speranza. Più siamo impegnati a trovare strade non armate per la soluzione dei conflitti, più riusciremo a costruire ponti di comprensione, di conoscenza reciproca, e a sradicare le radici dei conflitti. La paura dell’altro ci fa essere sospettosi, diffidenti, ce lo fa credere un terrorista, preclude la possibilità di ogni tipo di dialogo. In questo ambito credo molto nella presenza delle donne e nella loro creatività da cui spesso scaturiscono importanti iniziative di pace”. Dialogo e conoscenza sono sempre da privilegiare, per Marie Dennis, anche se il rischio di fallire è dietro l’angolo. Lavorare per la pace e la riconciliazione richiede, in fondo, un forte e concreto coinvolgimento nella difesa dei diritti umani, specie di quei gruppi minoritari di cui il Medio Oriente è ricco. “Non possiamo restare a guardare ciò che accade in Siria e Iraq – chiarisce subito – dove intere popolazioni, comprese le minoranze subiscono abusi e violenze di ogni genere per questo è urgente chiedere l’intervento degli Organismi internazionali, come l’Onu, perché, restando nel campo del diritto, salvaguardino la vita e i diritti di queste persone e trovino soluzioni ai conflitti”. Ma non basta. Dall’incontro di Betlemme è emersa la necessità di “pensare a una strategia di medio e lungo termine per promuovere la pace che preveda investimenti nel campo dell’educazione, della formazione, del dialogo, e non degli armamenti. Le bombe aggravano i problemi come si vede dalla campagna aerea della coalizione internazionale contro lo Stato Islamico. Meglio sarebbe fare pressione su quei Paesi che lo finanziano”. Agire alle radici del problema per rimuoverlo e “non solo sulle conseguenze” come l’Isis.
Una strategia di pace. Da Betlemme, conclude Dennis, “emerge una strategia di pace sempre più ancorata al Vangelo, in cui la dignità di ogni persona sia pienamente rispettata e i suoi diritti garantiti. I milioni di sfollati, di rifugiati sparsi nel mondo ci ricordano come i conflitti creano livelli di vulnerabilità drammatici e di lunga durata”. Parole chiave di questa strategia sono “cooperazione, sviluppo, dialogo, solidarietà e pressione politica internazionale. È in questa direzione che deve muoversi chi vuole sviluppare altre strade per arrivare alla pace. Investire in progetti di scuola e formazione per evitare la nascita dell’estremismo tra i giovani. Al costruttore di pace oggi viene chiesto di essere creativo, radicato nel territorio, pieno di speranza e testardo. È un lavoro lungo e faticoso ma che contribuirà in modo decisivo a costruire un futuro di pace”.
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