Acqua e cibo agli sfollati in fuga dalle violenze di Boko Haram: questa sarà la priorità degli aiuti da parte di Caritas Nigeria, a sostegno della popolazione che sarà reinsediata nello Stato del Borno, nel nordest della Nigeria, caduto lo scorso anno sotto il controllo delle milizie islamiste. Dopo la recente avanzata dell’esercito nigeriano nelle aree controllate da Boko Haram, con la liberazione di molti ostaggi – ma anche la dolorosa scoperta di fosse comuni – ora la popolazione inizia a rientrare. Ne abbiamo parlato con monsignor Lucius Ugorji, vescovo di Umuahia e presidente di Caritas Nigeria. Secondo dati recenti forniti da Fides, 5mila dei 125mila fedeli cattolici sono stati uccisi dagli estremisti e 100mila sono dovuti fuggire, inclusi 26 dei 46 sacerdoti diocesani, 30 religiose e oltre 200 catechisti. Dei 40 centri parrocchiali, 22 sono deserti o occupati da Boko Haram, mentre 350 chiese sono state distrutte.
Qual è la situazione nei campi dove vivono gli sfollati in fuga da Boko Haram?
“Ci confrontiamo con il fenomeno Boko Haram dal 2009: tante case e villaggi sono stati distrutti, tante persone sfollate. Due settimane fa sono stato in Camerun, nella diocesi di Maroua a visitare 26mila sfollati in fuga da Boko Haram. Siamo andati con una delegazione di vescovi nigeriani. Il governo federale della Nigeria si è unito agli sforzi della Chiesa cattolica nell’assistere i rifugiati nigeriani in Camerun. Il campo è gestito dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati che garantisce cibo e assistenza sanitaria. L’atmosfera nel campo era molto cordiale, erano molto contenti della nostra visita”.
C’è ancora molta violenza nello Stato di Borno?
“Sì specialmente nella foresta di Sambisa dove si sono nascoste ora le milizie di Boko Haram e dove arrivano rinforzi da Camerun, Ciad, Nigeria. Negli ultimi due mesi colpiscono obiettivi facili perché cercano alimenti, saccheggiano nei mercati e poi fuggono”.
La Nigeria ha eletto di recente un nuovo presidente, Muhammadu Buhari, che entrerà in carica il 29 maggio. Quali aspettative in merito alla lotta a Boko Haram?
“Il nuovo presidente è un generale in pensione, quindi ci aspettiamo che faccia qualcosa di più. Vedremo dal 29 maggio in poi come riuscirà ad affrontare le sfide della sicurezza nel Paese. Auspichiamo una rapida soluzione del problema ma finché non saranno sradicate le cause che ne sono alla base si rischia di avere questa presenza ancora tra noi. Una delle cause principali è la povertà, specialmente in quella regione. Naturalmente la mancanza di educazione trova terreno fertile per un indottrinamento di massa all’Islam radicale, per poi mandarli a combattere contro il resto del Paese”.
La Nigeria è una nazione enorme: tutti i cattolici sentono la presenza di Boko Haram come una questione che riguarda tutti oppure è avvertito solo come un problema locale?
“Maiduguri, nello Stato di Borno, è un importante centro commerciale, per cui si avverte l’impatto sugli affari anche in altre zone del Paese. Inoltre migliaia di persone stanno fuggendo verso il Sud della Nigeria, perciò oramai è una questione che preoccupa tutti”.
Cosa fa la Caritas nigeriana per gli sfollati?
“Ci sono molte necessità nella zona, perché le persone hanno perso le loro case, il bestiame, le attività produttive. Molti ponti sono stati distrutti e alcune fonti ci informano che anche le sorgenti d’acqua sono state avvelenate. La nostra priorità ora è capire come aiutare nel reinsediamento degli sfollati, hanno bisogno soprattutto di acqua e di cibo. Come Caritas dobbiamo impegnarci nella riabilitazione delle persone quando torneranno nelle loro case. I preti della diocesi di Maiduguri ora sono soprattutto nella diocesi di Yola, che li sta aiutando molto”.
Come vescovi nigeriani, quale appello alla comunità internazionale?
“Chiediamo alla comunità internazionale di sostenere la popolazione con aiuti umanitari e un sostegno militare soprattutto nell’area dell’intelligence, delle attrezzature militari e nelle comunicazioni”.
Oggi è più difficile essere cristiani in Nigeria?
“Sì ma c’è anche da dire che le persecuzioni rendono le persone più consapevoli della propria fede. Quando si vivono situazioni così drammatiche la gente dice solo: ‘Dio è la nostra speranza’. Questa è la frase che ho udito più spesso nei campi dove vivono i rifugiati. E ringraziano la solidarietà di chi li aiuta in nome del Vangelo. Questo li rende molto più saldi nella loro fede”.
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