EUROPA – Nel mezzo di una crisi economica, è stata una bella sfida l’aver celebrato, il 17 ottobre, la “Giornata internazionale per lo sradicamento della povertà”, dato che gli obiettivi indicati appaiono più lontani che mai. Il bisogno degli Stati di equilibrare le finanze pubbliche e ridurre il debito pubblico porta ai programmi di “austerità” che minacciano di trasformare la recessione in depressione. Appoggiare la crescita come rimedio primario sarebbe accrescere le disuguaglianze nella spesso falsa speranza che la ricchezza porterà beneficio tanto ai poveri quanto ai “creatori di ricchezza”. Anzi, l’immagine delle ricadute è decisamente accurata: in una fase di espansione, i poveri sono gli ultimi a guadagnarci; nella recessione sono tra i primi a soffrire.
L’intergruppo del parlamento europeo sulla povertà e i diritti umani, moderato dalla parlamentare europea Sylvie Goulard, si è quindi riunito a metà ottobre per discutere tali sfide sia a livello globale che europeo, dato il presupposto che nella lotta contro la povertà la solidarietà non si può frazionare.
Abhijit Banerjee, autore di “Economie povere”, ha sottolineato l’estrema necessità di rispettare le persone nella povertà astenendosi dalle facili deduzioni riguardo le loro priorità. Politiche ben strutturate emergono solo da consultazioni ad ampio raggio, da prove efficaci e dalla preoccupazione di comprendere il contesto culturale in cui una determinata politica dovrà poi essere implementata. Anche i valori sono sempre una domanda aperta; per esempio, la nozione occidentale liberale dell’auto-evidente virtù dell’imprenditoria, potrebbe risultare una delusione nell’India rurale in cui “auto-impiegarsi” di solito significa raschiare il fondo per sopravvivere. Diana Skelton, di Atd Quart Monde, ha messo in discussione un altro ben amato slogan occidentale per cui “la competitività genera eccellenza”. “Eccellenza in che cosa?”, ha domandato. In ambiti come la distribuzione dell’assistenza umanitaria, “competitività” e auto-promozione possono essere letali. Skelton ha citato il successo di un programma educativo in Madagascar fondato sulla “pedagogia del non-abbandono” – l’opposto della competizione. (In contrapposizione al concetto utilitaristico “la più grande felicità possibile per il maggior numero di persone”, la ricerca cristiana del bene comune richiede esattamente solidarietà, ‘non-abbandono’).
Forse in maniera inattesa, molta parte della discussione europea si è concentrata sul ruolo chiave della Banca centrale europea. Il suo primo obiettivo non è di promuovere la crescita ma, in tempi favorevoli e soprattutto in tempi difficili, difendere contro eccessive disuguaglianze attraverso un triangolo di “uguaglianza, efficienza e stabilità”. Qui “stabilità” non significa mantenere uno status quo economico, per quanto ingiusto, ma limitare i traumi alle economie europee più vulnerabili. La stabilità dei prezzi protegge quei settori più poveri della società che perdono di più per l’inflazione, dal momento che i loro scarsi risparmi sono in contanti e le loro pensioni non tengono il passo dell’inflazione.
Come si può controllare la spesa pubblica senza lacerare reti essenziali di sicurezza sociale? Come si possono condividere più equamente le perdite causate dai fallimenti bancari tra i depositari della banca e i suoi azionari? Queste domande morali urgenti, apparentemente lontane anni luce dalle domande che hanno dominato i dibattiti presidenziali americani, mostrano che il modello sociale europeo, sotto evidente sforzo, è lungi dall’essere defunto.
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