In occasione del discorso tenuto all’Assemblea generale della Cei, il Santo Padre è tornato a denunciare la diffusione di una “mentalità di corruzione pubblica e privata” che genera solo impoverimento e forme di esclusione, sottolineando la necessità di contrapporre a tale grave forma di degenerazione della società, una “sensibilità ecclesiale”, ovvero, la capacità di “appropriarsi degli stessi sentimenti di Cristo, di umiltà, di compassione, di misericordia, di concretezza – la carità di Cristo è concreta – e di saggezza”.
Un richiamo ripreso anche nell’omelia di Pentecoste in cui il Papa ha esortato l’umanità intera a “’lottare senza compromessi contro la corruzione”, evidenziando ancora una volta come su questo tema e sui fenomeni di esclusione che da essa discendono, il mondo cattolico sia chiamato a fare di più, sia nella pastorale che in opere concrete.
Nel linguaggio comune siamo soliti parlare di corruzione riferendoci all’abuso della posizione di un individuo, finalizzato all’egoistico perseguimento di interessi personali a discapito di colui che la subisce. È la prospettiva su cui si regge la nostra legislazione penale e le stesse norme anticorruzione recentemente approvate dal parlamento. Un fenomeno, quindi, dalla portata apparentemente circoscritta, quasi individuale, che non incide di per sé sul corretto funzionamento della società e delle sue istituzioni.
L’esperienza dimostra però come l’insieme di singoli fenomeni corruttivi – e, quindi, la pervasività di una mentalità corrotta che si traduca in una cornice istituzionale di tipo estrattivo – rappresenti la cartina di tornasole di una società ingiusta ed incapace di guardare al bene comune.
La dottrina sociale della Chiesa (Dsc) utilizza infatti il termine corruzione in un’accezione più ampia, coerente con la sua derivazione etimologica dal latino “corrumpere” (mandare in mille pezzi, rompere del tutto, rovinare), tesa ad evidenziare come un sistema di convivenza sociale che ponga la corruzione quale paradigma dei rapporti interpersonali, finirebbe per rompersi del tutto. In questo senso, il riferimento è a qualsiasi forma di disumanizzazione dei meccanismi di convivenza sociale che, negando la dignità dell’uomo e la sua natura relazionale, comporti conseguenze negative su quel bene morale che è la fiducia, ovvero, sull’aspettativa che tutti si comportino secondo certi valori morali condivisi. Poiché l’uomo è portato naturalmente a vivere con gli altri, il magistero sociale pone grande risalto al ruolo della fiducia e al paradigma della reciprocità quale cardine di una società giusta, orientata al bene comune.
La fiducia, quale elemento fondante della stessa relazione tra l’uomo – libero e responsabile – e Dio, lo è (o deve esserlo) a maggior ragione nei rapporti interpersonali (“Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”, Mt 25, 40). Essa è strettamente connessa all’esercizio delle virtù umane, al punto che la Dsc indica proprio in tale agire umano la via per rafforzare e coltivare quel capitale sociale ritenuto essenziale per lo sviluppo di una società autenticamente umana, capace di contrastare efficacemente l’idolatria dell’individuo.
Una società fondata sulla fiducia è, quindi, una società che gode di un elevato livello di capitale sociale ed è quindi in grado di perseguire un modello di sviluppo economico integrale incentrato sulla competizione (nel senso latino di “cum-petere”) e sulla solidarietà nei rapporti interpersonali e sul principio di sussidiarietà quale criterio ordinatore dei rapporti tra individuo e comunità politica.
Le parole di Francesco – rivolte all’intera Chiesa – ci ricordano che ciascuno di noi è chiamato a farsi imitatore di Cristo (“perfectus Deus, perfectus homo”). Il richiamo ad una maggiore sensibilità ecclesiale si traduce, quindi, in un invito rivolto a tutta la Chiesa e, cioè, a ciascuno di noi, ad essere semplicemente cristiani (“Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse sapore, con che cosa lo si potrà rendere salato?”, Mt 5, 13) e a far sì che l’esercizio del dono della libertà personale diventi occasione di umanizzazione della società e non il contrario. Affinché l’esercizio delle virtù umane possa tradursi in un bene pubblico, siamo perciò tutti invitati a una coerenza di vita poiché ciascuno di noi è responsabile oltre che delle sue azioni, anche delle strutture e dei comportamenti sociali.
La piaga della corruzione non interessa dunque solo corrotti e corruttori, bensì l’intera società. È questa la ragione per cui la Dottrina sociale esorta i cattolici – ciascuno secondo il proprio stato – a non voltare lo sguardo, bensì, ad essere “testimoni credibili” (Benedetto XVI, Lett. ap. Porta Fidei) del Vangelo, sia come pastori che come laici chiamati ad assumere “responsabilità a tutti i livelli, da quello politico a quello sociale, da quello economico a quello legislativo”.
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