Fra l’inizio del 2014 e la recente scomparsa a 99 anni di Manlio Cancogni, si è esaurita la generazione degli scrittori che hanno materialmente partecipato alla Resistenza e su di essa testimoniato nelle loro opere: nel gennaio dell’anno scorso Mario Isella, cantore dell’epopea scout durante la lotta clandestina, in febbraio Eugenio Corti, autore della saga Il cavallo rosso, in dicembre Giulio Questi, con la raccolta di racconti Uomini e comandanti. Possiamo così parlare di un ciclo narrativo compiuto, cui si può aggiungere la morte nel 2012 di Luisito Bianchi che aveva scritto La messa dell’uomo disarmato, un romanzo di respiro storico ambientato negli anni Quaranta.
Con Cancogni se ne va quindi l’estremo narratore di settant’anni di letteratura di inventiva dedicata a quel periodo fra gli anni ’40 e ’43. Un settore ricchissimo di risultati e tale da ottenere un posto a sé nelle vicende culturali italiane. In cui l’autore toscano è da ricordare per i meriti artistici più, forse, che per gli indubbi successi della sua vita professionale di giornalista, a partire dalla tanto ricordata inchiesta sui mali di Roma; gli esiti letterari (si aggirano sui venticinque i libri da lui pubblicati fra invenzione, saggistica, memorialistica ) lo collocano fra i nomi più apprezzati di una lunga stagione e come tale è stato salutato nei commenti all’indomani dalla morte.
Nella maggior parte di essi, tuttavia, si è potuta notare una sorta di ritrosia quando si è parlato della vita spirituale di Cancogni.
Egli era un convertito o, meglio, un restituito alla fede, e non ne faceva mistero, anche se in un’occasione disse: “La fede non si rivendica, si testimonia”. In molti degli omaggi che gli sono stati resi si scorge il tentativo di cortocircuitare il suo cattolicesimo, insistendo su un preteso versante “laico” della sua esistenza, come se la pratica religiosa fosse soltanto un incidente. E si finisce con il dimenticare quanto egli stesso aveva affermato: “Al cattolicesimo, al fatto di essere battezzato, al catechismo imparato da piccolo devo comunque la libertà da certe servitù ideologiche”. E ancora: “Sono convinto che senza un apporto dell’aldilà non andiamo da nessuna parte”.
L’inserzione di Cancogni nel filone narrativo della Resistenza è giustificata sia da una vena che possiamo ritenere costante di antifascismo vissuto, sia dagli esiti di almeno due romanzi, di recente riediti e che hanno trovato una nuova, favorevole accoglienza di pubblico, L’odontotecnico (1957) e La linea del Tomori (1966) con il nuovo titolo Signor Tenente, vincitore a suo tempo di un premio prestigioso come il Bagutta. Il primo descrive un ambiente piccolo borghese dominato dalla meschinità del potere fascista, il secondo ricostruisce una situazione di guerra da cui emergono lampi di umanità.
L’occasione consente di ampliare il discorso sulla persistenza di una cultura dominante che, anche se in crisi, continua a emarginare i prodotti non appartenenti alle scuderie riconosciute. Proprio in questo caso Cancogni ne fa le spese, con il citato L’odontotecnico che può reggere il confronto con quanto di meglio è stato scritto, per esempio il giustamente osannato Una questione privata di Beppe Fenoglio, ma non ha dietro di sé centri di potere culturale che lo sostengano. E il fenomeno si allarga a una specie intera. Dei nomi che abbiamo fatto, Isella, Corti, Questi, Bianchi, tre (quattro con Cancogni e a parte Questi) si rifanno a radici cristiane saldissime; ma, in quanto tali, nei regesti letterari non vengono mai assunti con una loro dignità di specie, non si fa un discorso che coinvolga valutazioni non soltanto di etica laica.
Forse è tempo di rivedere un po’ i testi. Di restituire, per esempio a Corti e a Bianchi, lo spazio che loro compete nella lettura della storia attraverso il romanzo e il racconto, e un romanzo e un racconto cui appartengano anche dimensioni morali, spirituali, se vogliamo essere precisi. Di chiedersi perché, in tanta produzione accademica e di critica letteraria, non vengano presi in alcuna considerazione fra gli altri – evitando addirittura semplici citazioni – i libri di Gino Montesanto (Cielo chiuso), di Bonaventura Tecchi (Un’estate in campagna), di Gino Tibalducci (Il prigioniero nella stalla), di Giuseppe Longo (Cronache di Torriana), di Sandro Bevilacqua (Miserere a San Donato). È una sfida da lanciare, oggi, quando una nuova generazione di studiosi sta approntando strumenti di ricerca e verifica meno unilaterali.
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