Un tempo si sarebbe parlato di “Realpolitik”: operare scelte utili, concrete, senza badare troppo ai principi etici. È un po’ quello che è accaduto al Consiglio europeo del 15 ottobre: i flussi migratori premono sull’Europa, in Turchia ci sono altri 2 milioni di rifugiati siriani che potrebbero riversarsi nel Vecchio Continente via mare oppure attraverso il corridoio balcanico: dunque meglio aiutare il Paese euroasiatico a “tenere i migranti nei suo confini ed evitare che si mettano in viaggio verso l’Ue”, come ha riassunto, nel cuore della notte, il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker.
Per far questo il vice presidente della Commissione, Frans Timmermans, ha fatto la spola nei giorni scorsi tra Bruxelles e Ankara, giungendo a sottoscrivere con Recep Tayyp Erdogan una bozza di accordo sul quale l’Ue deve apporre l’ultimo sigillo. Accordo che prevede fondi per 3 miliardi di euro, la promessa di riaprire, anzi accelerare, i negoziati di adesione della Turchia, la liberalizzazione dei visti a partire dal 2016, il riconoscimento di status di “Paese sicuro” (mossa abile per impedire ai curdi o alle altre minoranze e opposizioni politiche interne di chiedere lo status di rifugiato nell’Ue). Il tutto a 15 giorni dalle elezioni politiche ad Ankara, quando Erdogan tenterà di riconquistare una solida maggioranza per governare, a modo suo, il Paese-ponte tra Oriente e Occidente. Senza trascurare i fatti recenti, compreso lo “strano” attentato alla manifestazione pacifica nella capitale, con oltre cento morti…
Il tema urgente del Consiglio europeo era la crisi dei profughi, che preoccupa i governi, mette in allarme i cittadini europei, alimenta timori nell’opinione pubblica e divisioni tra gli Stati, dove si edificano nuovi muri sui confini. In questa situazione si possono già ritenere un modesto successo le due righe che si leggono in cima alle “Conclusioni” del summit: “Affrontare la crisi migratoria e dei rifugiati è un obbligo comune che richiede una strategia globale e un impegno deciso nel corso del tempo, in uno spirito di solidarietà e responsabilità”. Si tratta di un pur flebile richiamo al fatto che occorre muoversi insieme: ci sono voluti quattro vertici nell’arco di un anno per convincere i Ventotto. Ma adesso bisogna fare i conti con Erdogan: così i leader europei valutano “positivamente il piano d’azione comune con la Turchia nel quadro di un programma di cooperazione globale basato su condivisione delle responsabilità, impegni reciproci e conseguimento di risultati”. L’Ue e i suoi Stati membri “sono pronti a rafforzare la cooperazione con la Turchia – si legge poco oltre – e a intensificare significativamente il loro impegno politico e finanziario entro il quadro stabilito”. Infine, parlando sempre della Turchia, “occorre rilanciare il processo di adesione, al fine di compiere progressi nei negoziati”. L’urgenza migratoria fa scivolare in secondo piano la convinzione diffusa che la Turchia di Erdogan non sia un Paese pienamente democratico, tanto meno rispettoso dei principi europei e dei diritti fondamentali. Ma, appunto, questa è Realpolitik.
E non c’è solo la Turchia fra le questioni che rimangono in stand by. I leader degli Stati dell’Unione hanno parlato di ricollocamento dei profughi: da una parte i Paesi più aperti e disponibili, come Germania e Svezia, sul fronte opposto Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia e Spagna che tirano il freno a mano. Quando si tocca il capitolo della protezione delle frontiere esterne – condizione necessaria per procedere con i ricollocamenti – ci si rende conto che gli “hot spot” (punti di crisi) per l’identificazione dei migranti non sono ancora decollati, salvo Lampedusa: perciò si chiede di procedere entro fine novembre.
Altri punti aperti: la politica comune di asilo (come andare oltre l’accordo di Dublino?), il sostegno finanziario ai Paesi più esposti verso il Mediterraneo e il Medio Oriente (Italia, Grecia, Malta, Bulgaria, dove ieri si è registrato un morto tra i profughi in fuga dalla Turchia verso l’Europa), la lotta ai trafficanti di esseri umani, l’istituzione di campi profughi oltre i confini Ue, la costituzione di un corpo di “guardie di frontiera” sotto la bandiera blu con le 12 stelle. Per tutte queste ragioni si tornerà a discutere a La Valletta, con un incontro straordinario stabilito per l’11 e 12 novembre. Mentre ulteriori punti nell’agenda del summit sono stati forzatamente rinviati o solo accennati: Siria (sì all’azione diplomatica, non si è parlato di intervento armato, critiche espresse alle posizioni della Russia, preparare il dopo-Assad), Unione economica e monetaria (l’Unione bancaria sembra diluirsi nel tempo) e referendum britannico sulla permanenza nell’Ue. I profughi, per ora, hanno la precedenza.
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