La primavera araba? “Piuttosto un autunno”. E le speranze nate nel 2009, prima in Tunisia e successivamente in Egitto, Libia e Siria? “Si sono perse per strada. In Egitto, in modo particolare, dove oggi governa un regime militare che perpetua una situazione di dittatura che dura da decenni”. Ne è convinto Omar Attia El Tabakh, vice-presidente e portavoce del “Comitato nazionale libertà e democrazia per l’Egitto”, rappresentante per l’Italia di International Coalition for Egyptian Abroad (Icega). Vicino alle posizioni della Fratellanza Musulmana, il movimento del deposto presidente Mohamed Morsi, uscito vincitore dal voto del 2012, El Tabakh – che ha partecipato a Palermo al II Colloquio del Mediterraneo, “Religioni, pluralismo, democrazia: le attese dei giovani del Mediterraneo”, organizzato dall’Istituto di Scienze sociali “Nicolò Rezzara” di Vicenza – rivendica la transizione democratica successiva alle elezioni, che ha visto la nascita di un nuovo Parlamento e di una nuova Costituzione. Non dello stesso parere i milioni di persone organizzate dal movimento Tamarod (“ribelli”) scese in piazza, un anno dopo, per chiedere, invece, le sue dimissioni e voto anticipato. Proteste sostenute dall’esercito, con l’ausilio dei carri armati, che il 3 luglio comunicò la deposizione di Morsi e la sospensione della Costituzione. Colui che all’epoca era il capo delle forze armate e ministro della Difesa, Abdel Fattah Al-Sisi, oggi è il presidente egiziano (in carica dall’8 giugno 2014).
Il controllo dei generali. “Oggi – rincara la dose El Tabakh, che per le sue posizioni politiche non può recarsi in Egitto – i generali controllano anche una larga fetta, si parla del 70%, dell’economia del Paese. Questo è il motivo per cui l’esercito, che vanta un milione e mezzo di soldati, è forte”. Nonostante il susseguirsi di regimi dittatoriali, spiega il portavoce del “Comitato nazionale libertà e democrazia per l’Egitto”, il Paese “ha cercato di dare delle risposte politiche con la nascita di partiti laici e di centro, tra cui i Fratelli musulmani, che hanno portato avanti, ognuno per la propria visione, l’opposizione al regime di turno. Il presidente al-Sisi si sta spingendo ben oltre Mubarak”. Chiaro il riferimento alla violazione di diritti umani, denunciata da organizzazioni come Human Rights Watch (Hrw) e Amnesty international. Intanto in questi giorni il Paese torna alle urne per le prime elezioni parlamentari, dopo la cacciata dell’ex presidente Morsi nel 2013 nonché le prime da quando è in carica il presidente al-Sisi. Si tratta di un lungo passaggio elettorale per 55 milioni di aventi diritto e che si concluderà il 4 dicembre. La principale formazione d’opposizione, i Fratelli musulmani, è stata dichiarata organizzazione terroristica e per questo, dicono gli analisti, il prossimo Parlamento sarà formato in maggioranza da sostenitori di al-Sisi.
La democrazia segna il passo. Ma se in Egitto il cammino verso la democrazia, per El Tabakh, segna il passo con il regime di al-Sisi, in Tunisia le cose sembrano andare meglio come testimonia il premio Nobel per la pace assegnato al “National Dialogue Quartet” tunisino per il suo contributo decisivo nella costruzione di una democrazia pluralistica dopo la rivoluzione cosiddetta dei “gelsomini”. Un evento che “ci rallegra” dice il portavoce del “Comitato nazionale libertà e democrazia per l’Egitto”. Nonostante sia stato duramente colpito dal terrorismo, “nel Paese nordafricano il processo democratico va avanti anche perché non ha un esercito così forte come l’Egitto e una popolazione numerosa. Gli egiziani sono oltre 80 milioni, una società anche spaccata a livello generazionale. Da una parte persone anziane e spesso analfabete, dall’altra – oltre il 50% – i giovani che sono molto scolarizzati e che grazie ai social cercano di fare sentire la loro voce nonostante il controllo del regime”.
Stessi diritti per tutti. I giovani rappresentano il futuro del Paese ma, a detta di El Tabakh non sentono la fiducia dell’Occidente. “La comunità internazionale, almeno questa è la percezione che abbiamo, crede che non siamo pronti alla democrazia, e quindi destinati a restare nel nostro brodo, che è il regime di turno. In fondo i passati dittatori hanno fatto molto comodo all’Occidente, per i rapporti bilaterali tra Stati e per i loro interessi. Pensiamo alla Libia e agli investimenti che, per esempio, l’Italia ha in Egitto. Questi hanno più valore delle vite umane e dei diritti delle persone. Ma finché tutti non godranno degli stessi diritti non ci sarà pace in Medio Oriente e nel Mediterraneo come testimonia l’espansione dello Stato islamico. Le Grandi Potenze devono tutelare i diritti delle popolazioni. Diversamente, sarà difficile riportare la calma nella regione”. In questo ambito El Tabakh non ha dubbi: “Da oltre 2000 anni cristiani e musulmani si sono incontrati e scontrati sulle sponde del Mediterraneo. Dobbiamo concentrarci su ciò che ci unisce. Io sono un musulmano e credo nella mia fede, ma molti valori dell’Islam sono gli stessi del cristianesimo e dell’ebraismo. Ci sono chiese e moschee millenarie che lo testimoniano. Annichilire le religioni significa togliere la comune speranza che viene dalla fede di ognuno per cercare di mettere gli uni contro gli altri, come sta accadendo in Siria”.
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